PROBABILITA’ E CASO – EDIZIONI KANGOUROU ITALIA 2011

( www.kangourou.it ). 
Il libro è una collezione di articoli che offre una panoramica sull’utilizzo della teoria della probabilità, e del caso,
negli ambiti più disparati delle attività umane. 
Uno di questi articoli tratta del ruolo del caso nell’espressione artistica, pittorica in particolare.
Viene citato Paolo Bonaldi.

FRATTALI – EDIZIONI KANGOUROU ITALIA 2010 ( www.kangourou.it ). 
Il libro è una collezione di articoli che offre una panoramica della geometria frattale nei suoi multiformi aspetti. 
Uno di questi articoli tratta il tema della misura frattale dell’Arte.
Un’opera di Bonaldi, sottoposta a specifico software, mostra un carattere frattale.

Priscilla (2005)

I libri scorrono organicamente nel loro svolgersi in apparati biomorfi, ove strane linfe conducono i flussi. Nel loro srotolarsi ci aprono il muoversi contorto di forze sentite. Un breve e confuso annotare di conoscenze a margine accompagna questa visione sfuggente, un po’ amara, di un sapere profondo ma scettico, sempre. Dal “libro di corpo”, oggi alla biblioteca di Alessandria d’Egitto, agli altri che compongono questa biblioteca liquida e fluida, il sapere si nega e si propone ermetico, contradditorio, come un sistema di fughe inarrestabili per molte direzioni. Da questo groviglio nasce Priscilla, una struttura ferma e nervosa, che ha la stessa ambiguità dei libri, ma con un diverso vigore e con maggiore ironia. Una struttura coraggiosa e nuda, viaggiatrice di sistemi, dove si mostra nella sua integralità ma è pronta a scomparire. Ci sfida quella sua apparenza carnale ma la tempra affilata è sempre pronta a graffiare, lasciandoci il segno. Solo appoggiata sui suoi tentacoli urticanti Priscilla si muove in tutte le direzioni, nè alto nè basso, nè prima nè poi, nè ora nè mai: ci sfida con la sua identità integrale, ci provoca col suo tempo sospeso, e come la sfinge ci attende per proporci i suoi enigmi mortali, ma senza essere mortali.


Patrizia Serra (2005)

La densità delle cose (2005)

Alla densità delle cose (perchè solo le cose “dense” hanno diritto all’esistenza)
Quello di Bonaldi mi pare un percorso che, pur in tempi diversi, sia assolutamente opposto a quello dell’arte concettuale, o di un particolare filone di questa espressione. Alla metà degli anni settanta l’implosione, l’interiorizzazione dei concettuali tende alla smaterializzazione, alla perdita totale del corpo fisico delle opere. In un impeto di “purezza” il pensiero implode, con una progressiva sparizione/smaterializzazione di segni, forme e perchè no, contenuti. Livio Marzot e il bicchiere d’acqua alla galleria Annunciata. Per chi l’abbia vissuto con un minimo di coerenza, è un punto di non ritorno. Viceversa e, non dimentichiamolo, in anni assai diversi, per Bonaldi il processo di interiorizzazione si fa, di giorno in giorno, sempre più fisico: è una descrizione/narrazione del sistema linfatico, del flusso sanguigno, del “girovagare” di cellule e neuroni: la nostra palude interna. Anche le scritte, gli interventi “poetici” a parole, li vedo, in contrasto con il sistema venoso del sangue, rosso, come lo sviluppo di un sistema arterioso, blu, differente ma complementare al primo. Non ho interesse a leggere, a comprendere queste parole, ma solo a intuire i loro percorsi, il loro fluire; insisto, esse sono “segni”, complementari allo scorrere degli inchiostri “biologici”. Come quando ci si trova difronte a uno spartito musicale: magari non sai leggerlo, ma sai che è musica! Solo il nome giusto dà a tutte le creature e a tutte le cose la loro realtà (girerei così questo proverbio arabo: tutto quello che tu non puoi o non sai nominare, non esiste!) In nomine patri et filii…. Piuttosto che… “Ei si nomò…” di manzoniana memoria. A questo punto Bonaldi sente la necessità di estrapolare un elemento più solido, di forma sì cangiante, instabile e adunca, ma che si stacchi dal fluire incessante, dall’informe del suo lavoro, che “esca”. E lo identifica, lo chiama, gli dà un nome tutto suo, Priscilla, lo stacca dall’indistinto, lo fa esistere. È un passaggio importante, dall’interno, dalla vorticosa profondità del nostro fiume cellulare all’esterno, alla mutevolezza di un’immagine, sempre diversa ma sempre altrettanto uguale. È Priscilla, e qui torna l’idea di dare il nome per sancire l’esistenza. È l’esterno del corpo, è una sintesi graffiante? Sono le linee di tensione di un viso, rispecchiamento di un groviglio interiore? Dovremmo parlare di rappresentazione e di non-rappresentazione, di corpo e di corpo negato, di fuga all’interno in una “astrazione biologica” per paura dell’esterno, del riconoscibile, del ritratto? Ma, nello stesso tempo, la paura nasce dall’immaginazione: è una condanna, è il prezzo dell’immaginazione (altro proverbio, non mio). Fino a non molto tempo fa’, Bonaldi ha parlato molto più dell’interno che dell’esterno, ha parlato del fiume, non delle sorgenti o della foce. l’esterno è irrappresentabile, è di esclusivo dominio divino, oppure Priscilla è un inizio, un punto di “fuga” fuori, è il faticoso passaggio verso l’esterno, gli altri, il ritratto e l’autoritratto?

Marco Magrini (2005)

Pensiero inquieto (2004)

Una voglia indomabile alla ricerca di luci e di colori. Un viaggio migrante verso l’oltre e l’altrove, che vaga nella galassia, attraversa nebulose e sfiora fasci di stelle. Sperdute nelle galassie misteriose dipinte da Paolo Bonaldi, vagano “fluorescenze” e le tracce delle “sirene”. È notte nell’universo. Sembra una notte colma di dolcezza avvolta in musicali silenzi, ma dal cosmo oscuro un’avanguardia di “fluorescenze” avanza in gran velocità. Non ho bisogno di chiudere gli occhi per poter immaginare, c’è tutto lì, sui rotoli blu – le opere recenti di Paolo Bonaldi. E il momento del blu, il colore che acquista un autoritario ruolo da protagonista, si muove e si propone alla valutazione di chi osserva con una perentorietà che deriva forse dalla consapevolezza dei risultati raggiunti dall’artista. Guardo i rotoli blu, eppure, nel fondo si inseguono le macchie di mille cromie: sono raggi delle stelle, della luna che si incrociano, che si scontrano con le “fluorescenze” per avviarsi alle esplosioni ormai vicine. Mondi lontani vanno in frantumi, non si può più tornare indietro. Con gli occhi faccio scivolare le immagini su e giù, cerco di seguire il movimento delle “fluorescenze” – ma l’operazione risulta molto difficile per la gran velocità. Io non mi arrendo, continuo con lo sguardo a corrergli dietro, perchè solo così si entra nel respiro dell’universo che assorbe, gusta e rigetta. È notte nell’universo. Dentro di me sono già partita, sto precipitando nello spazio e nel tempo, la pelle sfiorata dalle “fluorescenze”, mi sento i capelli in fiamme, sento pianeti girare sempre più veloci. Mi lasci affondare nel blu, rabbrividendo un poco. E adesso? Ma non posso permettermi il lusso di riflettere. Ho appena il tempo di guardare da vicino, di godermi questa straordinaria sensazione di piacere. Intorno un silenzio più profondo di quanto abbia mai udito, perfino i pianeti e le “fluorescenze” bloccati nell’immobilità. È notte nell’universo. Buio, luce e colore. 

Beata (2004)

Flowers (2002)

Storia naturale. Piante carnivore e fiori artiglianti. Infiorescenze anomale, che affondano petali e corolle taglienti in uno spazio allusivo e totalizzante. Forme acute e acuminate, schiuse a poco a poco, come per gemmazione spontanea, da spore di ferro o di rame implose su se stesse quasi per un implicito atto di auto-protezione, necessario nella fase più delicata dello sviluppo biologico e spaziale. Paolo Bonaldi ha attinto le forme del suo regno pseudo-vegetale da un erbario fantastico e pieno d’ambiguità, elaborato in almeno tre anni di studi “naturalistici” (prima realizzava strutture metalliche dalla forma più o meno sferica e dal forte, intrinseco dinamismo, in cui vanno, peraltro, senz’altro riconosciuti i precedenti diretti di queste realizzazioni ultime) che, fuor di metafora, consistono nella scoperta di un personale universo poetico e formale e quindi, inevitabilmente, nell’approfondimento sempre più tenace e coraggioso delle proprie ragioni interne. Per il giovane artista lombardo, la progressiva messa a punto di queste originali forme plastiche e pittoriche ha assunto l’andamento di un processo biologico, quasi si trattasse dell’evoluzione spontanea di una nuova classe di organismi certamente dotati di autonomia e quasi di una creatività propria; creatività genetica, naturale. Ed è così, infatti, che l’artista ne parla: il suo corpo, il suo sguardo, i suoi gesti, si lasciano avvolgere, conquistare e persino ferire dai segni e dagli aculei di metallo che prendono lentamente consistenza fra le sue mani, quasi le mani e il corpo fossero semplicemente strumenti passivi, puramente agiti e manovrati dalla forza intrinseca di questi oggetti spaziali. In un giovane provvisto di un eccellente bagaglio di cultura e consapevolezza del proprio tempo e delle strade, anche le più contraddittorie e divergenti, della storia dell’arte, è raro ritrovare una coincidenza tanto immediata ed efficace di pulsione ed esigenza formale. Per Paolo Bonaldi la natura del sentire coincide con la natura tout court. La cultura con la coltura di organismi non soltanto, non semplicemente amichevoli o docili. Il processo creativo assomiglia all’evoluzione della specie. Ma anche all’esuberanza della polluzione spontanea di semi e di corpi su un humus adeguato. Avanguardie e altre divagazioni. Con tutto questo, non ci troviamo affatto di fronte ad un fenomeno, o meglio una scelta, per così dire, ingenua. Nella spazialità sovraccarica e leggerissima che Bonaldi predilige, i ricordi e i collegamenti si affollano e si intrecciano l’uno con l’altro in una sintesi assolutamente personale. Balla, per esempio (soprattutto quello dei Vortici e delle Linee di velocità). “Bisogna rendere l’invisibile che si agita e che vive al di là degli spessori, ciò che abbiamo a destra, a sinistra e dietro di noi, e non il piccolo quadrato di vita artificialmente chiuso come fra gli scenari di un teatro… abbiamo dichiarato che bisogna dare la sensazione dinamica, cioè il ritmo particolare di ogni oggetto, la sua tendenza, il suo movimento, o per dir meglio la sua forza interna… Ogni oggetto rivela, per mezzo delle sue linee, come si scomporrebbe secondo le tendenze delle sue forze”. Esigenze come queste, pubblicate nel catalogo della Prima Esposizione di Pittura Futurista (1913), non hanno perduto la loro attualità per Bonaldi, anche se la finestra prospettica del naturalismo ottocentesco e di tutta la tradizione pittorica dal Rinascimento in poi, non è certo più un termine di confronto e di scontro oggi, a secolo ormai concluso, e sono ben altre le frontiere possibili verso cui si protende il fare creativo di un artista ambizioso. Lo spazio, per esempio, il suo spazio, è già spazio liberato, conquistato, mobile, aereo, avvolgente. Bonaldi agisce secondo proiezioni di efflorescenze segniche e cromatiche improvvisamente distese ed allungate lungo tensioni imperscrutabili, che si materializzano oltre il foglio, in una succesione, una continuità di superfici leggerissime collegate insieme; oppure che si proiettano decisamente nella terza dimensione, talvolta con l’ausilio di supporti trasparenti ma carnosi di resine colorate e addensate come liquidi organici. Ma si tratta ancora, anzi più che mai, di “forza interna” di “ritmo particolare di ogni oggetto” che in questo caso, è ritmo di crescita organica, ritmo barocco, in altre parole, ritmo aggressivo che, giusto in virtù della propria aggressività, sfugge a qualsiasi sospetto di decorativismo e di leziosità. Informale, allora, ecco un altro riferimento indispensabile per parlare di questo lavoro, informale di segno e di gesto, ma calibrato da un autocontrollo volto sempre a garantire la prevalenza della forma, di un oggetto grafico o plastico che non rappresenta soltanto la pulsione, il desiderio, l’angoscia, in una parola, lo stato interiore, ma soprattutto vive di se stesso, della propria elegante, pericolosa, metamorfica energia interna. Arte totale, spazio totale, ambiente; senza preoccuparsi di concepire l’opera come installazione, sfuggendo così quasi ad un diktat del nostro tempo e della nostra cultura, Bonaldi riesce a costruire con rotoli di carte una spazialità avvolgente, in cui il fruitore si trova suo malgrado completamente immerso e perduto fra forme promettenti ed ostili, che lo coinvolgono nella propria liberissima fluttuazione, in un continuo aprirsi, reale o puramente evocato, al di là della superficie su cui sono tracciati i segni, gli strappi, le tracce di questa materia. Un risultato che non si esita a definire straordinario, soprattutto se si pensa ai mezzi tradizionalissimi con cui l’artista lo ottiene, refrattari a qualunque sussidio tecnologico, ai video, alle proiezioni, alle strumentazioni digitali senza le quali, oggi, sembra diventato tutto impossibile, tutto obsoleto, tutto limitato. Toccare. Invece no. Bonaldi si avvale ancora dell’antica arte della manipolazione, del contatto con i materiali; ama sperimantare, sulla propria pelle (organo dimenticatissimo dalle nuove tecnologie) sempre nuove sensazioni, ha bisogno di toccare cose differenti, non esclude a priori nessun elemento, nessuna materia purchè riesca a metterle le mani addosso, a scalfirla e a scalfirsene in una presa davvero diretta, senza riserve, senza cautele. È un pittore, è un disegnatore, finchè la pittura, il disegno, i colori gli consentono di far crescere la sua flora mutante in spazi sufficientemente rarefatti, sospesi, come una coltura nel vuoto, quel vuoto primigenio da cui tutto ha origine. È scultore, anche, ogni qualvolta senta l’esigenza di costruirle per davvero (e per una specie di insorgenza di “realismo” però non letterale, non didascalico, non rappresentativo ma costruttivo) le sue efflorescenze affilate, gangli di forme organiche strette intorno ad un nucleo di vuoto dinamico, contenitori di spazio attivo, in divenire; oppure protese dappertutto, oppure incastonate su radici di resina e di plexiglas. Forme che sembrano nascere dal suolo o dalla parete magari, come orchidee parassite, ma sembrano comunque nascere grazie ad un processo di generazione spontanea che nell’arte delle ultime generazioni trova davvero pochi, pochissimi paralleli. Interno /esterno. I segni di Paolo Bonaldi sono concepiti velocemente, come atto unico, irripetibile. Non ammettono correzioni, ripensamenti. Eppure sono lenti, meditabondi e quasi “orientali” nell’integrarsi allo spazio. A modo loro, contengono la suprema lezione dei Concetti spaziali di Lucio Fontana: vivono, cioè, di una sospensione in cui si perdono tutte le distensioni troppo nitide, le separazioni troppo perentorie e dove l’interno si fa continuamente esterno sia in senso spaziale che emozionale. L’interno, il vuoto, genera ed è generato fino al limite provvisorio che il segno offre, di volta in volta. Questo segno allora, questo segno refrattario alle classificazioni, che sa essere grafico nello spazio e plastico sulla superficie, può essere letto anche come modo della relazione fra l’interno e l’esterno, fra un mondo interiore sicuramente turbolento ed una messa in forma complessa ed esigente, meditata, sistematica; lontanissima, in altre parole, da quegli additivi chimici, tecnici e spirituali cui le neoavanguardie degli anni Cinquanta facevano sistematicamente ricorso per prevenire l’insorgere di una razionalità troppo prepotente e troppo limitativa. Per Bonaldi invece, e per la sua generazione cresciuta sotto il segno della disillusione rispetto a qualsiasi ideale romantico di soggettività, e di un’incalzante minaccia di de-soggettivizzazione, il semplice abbandono all’inconscio o a qualsivoglia automatismo non è più, certo, una soluzione praticabile. Anzi, ogni risorsa ormai, ogni capacità va messa e frutto per permettere la formazione di qualcosa che possieda ancora il valore della soggettività e la forza del progetto; qualcosa, in altre parole, che sia all’altezza di misurarsi con questa epoca di metamorfosi da cui nessun ideale, nessun linguaggio e nessun organismo può considerarsi indenne. Ed è proprio in considerazione delle inquietudini prodotte dal contesto in cui viviamo, che acquista ancora maggiore interesse la minacciosa innaturalità della natura naturans pazientemente articolata da Paolo Bonaldi: le sue forme aliene nell’impatto ma tradizionali nella tecnica, eleganti ed invasive, impregnate di memoria ma pienamente originali. 

Martina Corgnati (2002)

Vuoti che riempiono (1998)

Se “S’agit pour le fluteur de ‘fair parler’ les trous” (Dubeffet), allo stesso modo per Bonaldi si tratta più che altro dell’arte del vuoto, di far parlare l’eventualità, di sottolineare il sale dell’imprevisto. L’inaspettato diventa avventura della forma. “Tutto il possibile tende continuamente a manifestarsi” (Breton). Bonaldi sceglie adesso come unico alfabeto la linea di alluminio. Limitarsi è una rinuncia che non costituisce un impoverimento: insiste in questo modo molto efficacemente sull’aspetto della mutevolezza. Delle “sfere” colpisce la fluidità delle linee che costituiscono lo scheletro, ma anche l’unica consistenza delle forme. Per i loro slanci, a volte anche compressi, si dislocano al di là di ogni possibile rigidità. Ricordano l’attorcigliarsi e il distendersi del serpente, animale che non casualmente ricorre nei sogni di Bonaldi come pura incarnazione dell’imprevedibilità. Pur mantenendo la sua simbologia profonda e complessa, il serpente qui ricorre soprattutto come muta, ciclico cambiamento di pelle; è perciò rinnovamento, trasformazione, vita, energia del mondo. Tutto è energia; ogni forma, ogni spazio è instabile, impermanente. Il lavoro di Bonaldi è una messa in scena della precarietà, o meglio, una “emanazione” di essa. Egli riesce a far sì che lo spazio esprima la propria essenza inquieta, la propria vocazione al mutamento imprevisto, rendendo visibile l’ “anatomia” dell’andamento del destino, per mezzo di un procedimento “in presa diretta”. Non usa fare studi e bozzetti o immaginarsi le sue opere “a priori”. Nascono nella fattualità. Le linee delle “sfere” derivano da un gesto che, senza premeditazione alcuna, cerca attraverso il proprio movimento una forma che dia al suo attore/autore una qualche soddisfazione; allora si ferma. Poi Bonaldi applica il colore, per tentativi, “ascoltando” ciò che ha davanti. Un colore dalla forte qualità organica, ricco di modulazioni, con diverse zone rigonfie di grumi. Soprattutto i rossi (purpurei, sulfurei) sembrano sempre sangue rappreso. C’è un dolore acuto e nevralgico in queste opere quasi si trattasse di una continua messa a nudo dello spazio, proprio come l’uomo scorticato di Leonardo è una messa a nudo del corpo. Il mettere in mostra il complesso sistema venoso e arterioso, fatto di gangli e di deviazioni coincide qui con questa misurata, mai “eclatante”, mai compiaciuta, orchestrazione di elementi simili ma diversi, elementi che costituiscono una “famiglia” di segni che si organizza in forma di scrittura sconosciuta, insieme musicale e ideogrammatica. Queste sculture, sia le più recenti “sfere” sia gli “archi”, sembrano elementi costitutivi di un alfabeto fatto di energia in trasformazione; segni che, per le loro forme – sarebbe meglio dire i loro comportamenti – e soprattutto per le loro pause, e anche attraverso quelle misteriose forze fatte di presenza e assenza che sono le loro ombre, creano andamenti, traiettorie, percorsi dinamici la cui caratteristica principale sembra essere la provvisorietà, la disponibilità a mutare. Gli “archi”, disposti sul muro in modo simile ai caratteri di una sorta di scrittura cuneiforme, aguzzi e taglienti come seghetti, scandiscono la parete in modo più regolare e meno complesso rispetto alle “sfere”, senza chiamare in causa la dimensione dello spazio ambientale. Gli “archi” sono gli incunaboli del lavoro di Bonaldi e già portano in luce l’importanza dell’ombra, la pregnanza dell’aspetto più misterioso e mutevole. Ogni “segno” ha il suo “rovescio” ectoplasmatico, paradossalmente chiaro, “auratico”, dato dalla propria ombra, derivato dalla stampa fotografica dell’ “oggetto” posto direttamente a contatto con la carta emulsionata, in pieno rispetto delle regole “rayane”. Le “sfere”, più degli “archi”, al primo approccio potrebbero anche presentare un lato quasi lucido, per quel loro che di effervescente e per il loro fattore cromatico; ma questo superficiale aspetto da “parata” si rivela immediatamente illusorio, contraddetto con sottile violenza da una neppure troppo segreta irradiazione di crudeltà. Alcune “sfere” sono apparentemente quasi frivole, mentre altre decisamente più introverse e drammatiche. Taglienti, crude, scarne e scattanti le linee, aguzzi gli angoli, anzi, sarebbe meglio dire irte le punte. Andamenti imprevisti, liberi, anche se a tratti involuti, traiettorie che tendono ad avvilupparsi su se stesse per poi scattare improvvise trovando una qualche repentina via di fuga. Una problematizzazione dello spazio. E non solo della parete su cui si staglia un dialogo di ombre portate e da cui nascono le linee, in genere a partire da un grumo di colore, come piante da un tubero, come parole da una macchia d’inchiostro schizzata dal pennino; ma perfino dell’ambiente intero, perchè quelle fughe proseguono idealmente oltre la consistenza materiale delle linee, sopravvivono come slancio, come vettore, potenzialità di movimento. Le “sfere” instaurano fra loro, come del resto anche gli “archi”, un dialogo, un intreccio di relazioni, ma non sono in alcun modo leggibili come elementi di un’installazione; sono invece “figure” della stessa natura che si ripete variando. Rappresentano in un certo modo la continuità d/nel mutamento. Della realtà Bonaldi sembra recepire soprattutto l’aspetto del costante dolore della trasformazione, del presente come luogo imprendibile, carico di spinte verso “altro” che ancora non è, continuo pericoloso e avvincente squilibrio dell’essere verso il non essere. Post Scriptum Bisogna avvicinarsi alle “sfere” che, prive di qualsiasi zavorra, sembrano “galleggiare” appena appoggiandosi ai muri; se si arriva quasi a sfiorarle, se ne percepisce l’intimo respiro: come rami tesi di flessuose e sensibilissime piante, come esili antenne d’insetto, si muovono e vibrano al nostro passaggio. Anche le pareti, i muri, lo spazio hanno un’anima.



Elisabetta Longari (1999)